Ci fu
un tempo in cui non si faceva la spesa nei negozi, ne tantomeno si andava ai
centri commerciali, ma si produceva in casa tutto ciò di cui si aveva bisogno.
Era
il tempo in cui si lavorava e si viveva in campagna, oggi si indica con il nome
di civiltà o cultura contadina. Non si soffriva letteralmente la fame, ma non
si nuotava certamente nel lusso che conosciamo oggi, quello era appannaggio dei
soli ceti nobili.
La dicotomia economica che si
riscontrava in passato nella popolazione si rifletteva certamente in una
dualità culinaria, ma soprattutto nella preparazione dei manufatti necessari
alla vita sociale nel mondo contadino. Le masserie iblee rappresentavano spesso
il “mondo” chiuso attorno a cui ruotava la vita del contadino e di tutta la sua
famiglia: una vita agreste fatta di semplicità e del lavoro umile dei campi.
La
civiltà contadina si caratterizzava per la produzione all’interno del nucleo
familiare di tutto ciò che serviva, utilizzando quanto era disponibile sul
territorio. Il contadino aveva un occhio attento a tutto ciò che lo circondava,
particolarmente per le erbe spontanee che poteva semplicemente raccogliere
senza avervi effettuato alcun lavoro, con esse realizzava, nei lunghi periodi
invernali di fermo agricolo, corde (Ampelodesma
mauritanicus), recipienti vari (Arundo
donax, Chamaerops humilis, Olea europea silvestris, ecc.), utensili
per il lavoro, medicamenti e perfino il cibo. Finanche le recinzioni si
ottenevano con i tipici muri a secco realizzati impiegando le pietre ottenute
dallo spietramento del terreno.
Anche all’interno del focolare domestico
avveniva la stessa produzione in economia, particolarmente per quanto
riguardava gli indumenti, si produceva tutto ciò che serviva quotidianamente
alla famiglia e spesso si pensava anche al futuro preparando il corredo per il
matrimonio delle figlie. Quando ci si poteva permettere si separarsene, le figlie piccole venivano mandate nei conventi per
apprendere i segreti e le tecniche del ricamo e del cucito dalle suore che ne
erano le secolari depositarie insieme all’arte culinaria e dolciaria in
particolare.
Il
lavoro quotidiano, la tessitura, la roba della sposa (corredo nuziale) da
sempre rappresentano un punto cardine di grande importanza per il popolo siciliano,
che rievocano un passato di grande tradizione. Il lavoro delle donne siciliane
poteva essere diviso in due parti, la prima rappresentava il governo della casa
con la cucina, il riassetto e la cura della prole, la seconda consisteva nel
ricamo sapiente dei tessuti realizzando nel corso dei tempi vere e proprie
opere d’arte.
L’arte
del filare doveva essere conosciuta fin dai tempi più remoti. Dal ’300 gli
sfilati e i merletti hanno impreziosito i capi del corredo e la biancheria
delle fanciulle siciliane. Gli inventari dotali rivelano appieno la bellezza e
la ricchezza della biancheria isolana, raccontando la storia di questi intrecci
preziosi che fanno di un semplice filo di seta o di cotone, d’oro o d’argento,
un ricamo inimitabile o una impalpabile trina. Le lenzuola di tela, le coperte
di vario colore e tipo, i guanciali, le tovaglie e le cortine delle alcove sono
decorate finemente con ricami in oro e in seta, che raffigurano piccoli animali
molto stilizzati, reminiscenza di antichi motivi medievali di origine
aristocratica. In passato per ogni figlia femmina si cominciava il ricamo delle
stoffe sin da quando erano bambine. I pezzi erano 12 o multipli di 12,
conservati in cassapanche di legno ed elencati in una lista.
Lo
“sfilato siciliano” e il “filet” sono due delle più note manifatture del ricamo
isolano. Lo sfilato siciliano risale alla fine del XIV secolo nella Sicilia
orientale, mentre il Filet nasce in Francia e da lì passando per l’Europa
arriva fino in Sicilia.
Sia
lo Sfilato siciliano che il Filet, nel ’500 ebbero parecchio successo presso i
Signori in Italia ed in Francia, ma tali manifatture furono molto apprezzate
pure dal Clero che le impiega tuttora per ornamenti sacri.
Entrambe
le tecniche sono ormai da tempo entrate a far parte del più pregiato corredo e
arredo che si tramanda di generazione in generazione.
Fu
sotto la dominazione araba che si diffuse l’arte del ricamo, e dello sfilato in
particolar modo, trovando terreno fertile nella particolare situazione delle
donne siciliane di allora, relegate in casa, senza apertura verso lo studio o
verso attività professionali. La loro cultura era limitata ed esse, nella pace
del convento, apprendono l’uso dell’ago per l’utilità della casa e vengono
iniziate da preparatissime suore, all’arte del ricamo, dove eccellono per
abilità ed intelligenza creativa.
Studi
dimostrano come l’arte del ricamo in Sicilia, praticata già al tempo dei
Musulmani, sia stata dai Normanni poi coltivata e incentivata fino a farne una
delle maggiori attività degli Opifici del Palazzo Reale di Palermo. Il ricamo
si diffuse rapidamente in tutta la Sicilia con lavorazioni di ogni genere, da
quelle preziose con fili d’oro, perle e coralli per vestimenti principeschi e
curiali, per arredi aulici, per paliotti e gonfaloni e altri apparati
ecclesiastici, all’abbigliamento popolare e arredamento per la casa. Nel XV
secolo entrano in vigore le Leggi Suntuarie che proibiscono i ricami con fili
d’oro e d’argento per frenare l’uso di materiali eccessivamente sfarzosi; in
alternativa si evolve rapidamente come modalità di abbellimento il “ricamo in
bianco”, eseguito su tela bianca con filo bianco. Tra ’500 e ’600 l’arte del
ricamo diviene esercizio per giovani dame che imparano a ricamare prima di
sposarsi o entrare in convento; la capacità di ornare i tessuti diviene
requisito necessario nella classe elevata per una perfetta educazione
femminile. Il ricamo è diffuso però in tutti i ceti sociali ed anzi era
attività privilegiata delle giovani orfane ospiti dei conventi e degli orfanotrofi
oppure di giovani che venivano date in affidamento a famiglie nobili o ricche
che, in cambio di vitto e alloggio, le impiegava per tutta la vita alla
realizzazione dei corredi. Nell’800 il ricamo in bianco è onnipresente nella
biancheria personale e da casa, con grande varietà di punti e fantasia dei
motivi decorativi. L’attitudine al ricamo è stata tramandata di generazione in
generazione fino ai nostri giorni, insieme alle diverse tecniche di ricamo in
bianco.
Le
prime scuole di questi ricami sorsero a Palermo ed a Ragusa soltanto dopo la
prima guerra mondiale. L’organizzazione è quella tipica del lavoro a domicilio.
Nel passato, alcune donne più intraprendenti si organizzarono come “imprese”
distribuendo alle ricamatrici la stoffa ed il materiale, perché ognuna di esse,
nell’ambito della propria casa, si dedicasse a questo lavoro nei ritagli di
tempo. Ecco, dunque, sorgere le categorie della ricamatrice, della sfilatrice,
ecc.
L’imprenditrice
raccoglieva questo lavoro e si incaricava essa stessa di venderlo o in casa
propria o attraverso i negozianti. Oggi queste tecniche sono andate quasi del
tutto perdute, se non fosse per il lavoro di recupero di appassionate che sono
andate a ricercare le pochissime persone anziane, sia laiche che suore, che
ancora conoscono le tecniche.
Il
filet è un’autentica rete sulla quale possono essere ricamati motivi di ogni
tipo, la cui realizzazione richiede un’abile utilizzo delle dita secondo una
tecnica specifica; sulla rete, che può avere forma trapezoidale, rettangolare o
quadrata, verrà poi realizzato il ricamo desiderato. Variante del filet
classico, e il filet all’uncinetto in cui il ricamo avviene annodando il filo
secondo una tecnica particolare attraverso l’ausilio di uno strumento con un
piccolo uncino sulla punta mediante il quale si aggancia il filato per la
lavorazione. Da questo strumento deriva appunto il termine di “filet all’uncinetto”
o, più semplicemente “uncinetto”, conosciuto anche con il nome francese di “crochet”.
Come
la maglia si lavora un filo continuo ed un punto per volta, ma con un solo
strumento, l’uncinetto appunto. La tecnica consiste nella lavorazione di un
filo sottile per ottenere un merletto
mentre se si utilizza un filato più spesso si ottengono lavori molto resistenti
ed utili; il tipo di lavoro a trama fitta è però stato il più comune.
Si
presta per realizzare di tutto: abiti, borse, fiori, tende, centri, tappeti da
tavolo, paralumi, ecc. È considerato uno dei lavori più versatili e
soddisfacenti e tutto quello che occorre per realizzare articoli originali e
creativi è un uncinetto e un po’ di filo; permette di realizzare pizzi,
centrini, capi di abbigliamento, ecc. lavorando un unico capo filato continuo.
Lo
sfilato rappresenta una tecnica di passaggio alla trina e si lavora al telaio.
Si distinguono, per il diverso modo di lavorazione lo sfilato siciliano ’400
(praticato nella zona di Comiso), ’500, ’700 (tipico della zona di Ragusa) e il
’500 Vittoria (un tempo lavorato nel Laboratorio di Sfilati Siciliani d’Arte,
ma oggi praticamente scomparso).
Viene
eseguito in diverse fasi: il disegno, la sfilatura, il ricamo.
Tradizionalmente
ogni fase di lavorazione veniva eseguita da persone diverse, ognuna esperta in
quella tecnica. Per prima cosa si sfila, sia nel senso dell’ordito che in quello
della trama la tela, ottenendo così una “rete”; la tela più comunemente usata è
il puro lino. Si riuniscono poi a cordoncino i fili rimasti in modo da formare
un reticolato sul quale si forma il disegno, ricamando con il punto tela
(sfilato ’400) ed il punto rammendo (sfilato ’700).
Nello
sfilato siciliano ’500 il disegno viene riportato sulla tela e si sfila il
tessuto intorno, mentre il ’500 Vittoria è una rappresentazione dello sfilato
’500 ma con caratteristiche tipiche del laboratorio che lo ideò con
raffigurazioni ispirate ai bassorilievi greci.
Altra
tipologia di ricamo tramandatasi in Sicilia, ma non solo, è il Tombolo, un’arte
che nasce dalle abili mani delle ricamatrici del luogo, le quali lavorano un
finissimo pizzo di fili di lino o cotone, che vengono avvolti in piccoli fusi
di legno. Il ricamo nasce seguendo uno schema disegnato su un cartoncino, che
viene fissato su un cuscino cilindrico, il tombolo appunto. La sua diffusione
si ebbe grazie all’iniziativa di una nobildonna catanese, la baronessa Angelina
Auteri, moglie del principe di Biscari, che in seguito ad una miracolosa
guarigione da un male di cui era vittima, decise, insieme alla moglie, di
dedicarsi alla fede entrando in convento e donando in beneficenza l’intero
ingente patrimonio.
Pizzo
delicato e raffinato, viene realizzato con filo di cotone molto sottile,
richiede molta abiltà, esperienza e pazienza. Sul supporto viene fissato, con
degli spilli, il foglio con il disegno del merletto. La lavorazione comincia
con punti filza che seguono alcune parti del disegno, poi si procede
all'intreccio utilizzando come strumenti dei bastoncini detti fuselli attorno
ai quali viene arrotolato il filo necessario alla lavorazione. I fuselli usati
nelle realizzazioni più complesse possono essere anche un centinaio, mentre per
quelle più semplici bastano poche coppie. Con i fuselli le merlettaie eseguono
intrecci da tessuto, nodi, legature, che possono andare a coprire anche grandi
superfici (un intera tovaglia). Alla fine del lavoro, il pizzo è staccato dai
punti di supporto, e può essere fissato a una stoffa o utilizzato così come è,
a seconda della sua grandezza. In funzione delle dimensioni del filato, il
merletto risulta più o meno pregiato e raffinato.
Nel rispetto della tradizione,
all’interno della casa del contadino spesso si trovava il tradizionale telaio
siciliano che veniva impiegato per la tessitura dei manufatti più umili come le
piccole bisacce di lana, quelle grandi a larghi quadri neri su fondo bianco, le
frazzate, cioè le belle coperte di
lana, quelle bianche di cotone e poi la tela di lino e di canapa per la
biancheria, e il modesto filunnenti,
cioè il ‘filo da niente’, per tovaglie e strofinacci da cucina. La massaia
soleva tessere tutto quanto occorreva al fabbisogno familiare, i capi più
pregiati venivano poi completati con ornature eseguite con i metodi delle
lavorazioni del ricamo.
tunisino, oppure dipinti a mano.
Il telaio e tutti suoi pezzi sono
descritti in molti proverbi, modi di dire e indovinelli con bella efficacia
espressiva. L’arcolaio, di legno ma più spesso di stecche di canna, eseguito
dalle stesse massaie, viene così cantato: cci
hàiu ddùrici frati, tutti ddurici ncatinati, fanu a vita re ddannati ovvero
“ho dodici fratelli (le stecche di canna),
tutti e dodici incatenati, fanno la vita dei dannati”, girano cioè senza requie
ad avvolgere il filo.
Oggi è possibile visionare questi
attrezzi soltanto nei musei della civiltà contadina di Modica, Cava d’Ispica, Buscemi,
Palazzolo Acreide, Floridia, ecc., dove vengono ricreati gli ambienti della
vita agreste, oppure in alcuni musei specifici come quelli dello sfilato di
Chiaramonte Gulfi e di Solarino e quelli del tessuto di Scicli e Canicattini
Bagni, mentre chi è riuscito a salvare queste arti antiche oggi tiene corsi
privati per chi vuole imparare.
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