mercoledì 12 settembre 2012

Dalla placenta alla cassata siciliana


Gli studi del prof. Luigi Lombardo intorno alla scoperta  del ricettario di Apicio,  una Cinquecentina all’interno del Fondo Librario del Canonico S. Ajello, presso la Biblioteca Comunale “G. Agnello” di Canicattini Bagni, confluiscono in una conferenza dal titolo “Le Parole del Cibo” tenutasi alle ore 18.00 del 15 aprile 2012 presso il Museo del tessuto – Casa dell’Emigrante di Canicattini Bagni.
Nell’occasione ci si è deliziati con l’assaggio di alcune ricette di epoca romana: la caseata, i globi e i crostini con ricotta, timo e maggiorana.
Attraverso la storia delle ricette e dei ricettari dal 1500 ad oggi, viene anche trattata la caseata, un piatto energetico di formaggio, miele e spezie con una sfoglia a strati, una sorta di pasticcio della cucina di epoca romana e non solo…
Questo piatto dolce a base di formaggio era già conosciuto presso i greci con il nome di placentam ovvero torta. Il nome passa alla cultura romana dove designa anche l’organo temporaneo deputato agli scambi metabolici tra la madre e il feto presente nell’utero, per la sua forma generica e rotonda nell’essere umano.
Il primo riferimento letterario, secondo Callimaco, è da attribuirsi ad Aegimius, autore di un testo sull’arte di fare torte di formaggio. Catone il censore nel De Agri Cultura cita la placenta, un dolce realizzato con due dischi di pasta condita con formaggio e miele e aromatizzata con foglie di alloro.
Questo dolce è certamente l’antenato della moderna torta di formaggio della cultura anglosassone: il cheesecake. Nella cucina dell’antica Roma infatti si preparava una torta ripiena di miele e ricotta, come testimonia lo stesso Catone. Alcune ricette richiedevano foglie di alloro che potrebbe essere stato usato come conservante.
Nel tempo il termine placenta è stato relegato alla biologia, mentre la torta con il formaggio è stata ribattezzata caseata, dal termine latino caseum con cui veniva indicato il formaggio.
Tipica della Gran Bretagna, la torta di formaggio può essere generalmente classificata in due tipi principali: cotta e cruda. Ne esistono diverse varianti, realizzate nelle differenti nazioni in cui la torta è diffusa. Il Käsekuchen è un cheesecake tedesco con aggiunta di formaggio quark, mentre quello greco comporta l’utilizzo di formaggio mizithra e si chiama tiropita. Principalmente miscela strati di burro con una crema di formaggio. In altre varianti si utilizza invece la pasta sfoglia.
I cheesecake italiani sono solitamente guarniti con: ricotta o mascarpone, zucchero, vaniglia e, talvolta, orzo in fiocchi e frutta candita.
Lo sfogghiu, o sfoglio, una specialità di Polizzi Generosa, in provincia di Palermo, viene realizzato con pasta frolla ripiena di tuma, zucchero, cioccolata e cannella.
Simili sono anche le cassatine di Pasqua che si preparano nell’altipiano ibleo dove la tuma, il formaggio (non ancora stagionato) che affiora dalla cagliata, viene sostituito con la ricotta. Le cassatelle di Agira, invece hanno in comune la tipologia dell’impasto e la cottura in forno, mentre la farcia si discosta in quanto è formata da un impasto di cacao, mandorle tritate, farina di ceci, zucchero e scorza di limone essiccata, con eventuale aggiunta di cannella.
Anche la cassata siciliana si può considerare una sorta di cheesecake italiano essendo ripiena prevalentemente di ricotta di pecora.
Si dice che la torta attuale (pan di spagna, ricotta, pasta reale, zuccata e frutta candita) sia nata come tutte le cose licche (leccornie), nei conventi per poter essere consumata nel periodo di Pasqua. C’è da dire che molte delle ricette siciliane più elaborate sono giunte a noi attraverso conventi e monasteri, dove sono state conservate e preparate per i ceti più abbienti, contribuendo al sostentamento e all’economia degli stessi.
Una leggenda racconta che sia stata inventata dagli arabi. Un bel giorno un pastore arabo stava mescolando all’interno di un contenitore rotondo, del formaggio fresco con del miele. Si avvicinò un uomo e gli chiese che cosa stesse facendo. Il pastore, non capendo bene la domanda rispose quas’at, riferendosi al recipiente che stava utilizzando per mescolare i due ingredienti che sarebbero serviti per preparare un impasto dolce. Quas’at significa infatti scodella rotonda.
L’uomo pensò invece che si riferisse a quel miscuglio di sapori e da allora la miscela formaggio e miele, poi modificato in zucchero, venne chiamata cassata! Qualcun altro fa invece risalire il termine all’utilizzo della “scodella, ciotola rotonda” per la sua preparazione. Mi sembra invece inconfutabile la sua origine latina da caseum attraverso caseata.
Non v’è dubbio sul fatto che le radici della cassata risalgono alla dominazione araba in Sicilia (IX-XI secolo), tuttavia si lavorava già il formaggio fresco con un dolcificante naturale, il miele, conosciuto ed elogiato già al tempo dei greci. Gli arabi introdussero la canna da zucchero, il limone, il cedro, l’arancia amara, il mandarino, la mandorla.
Si racconta che intorno all’anno mille, al culmine della dominazione musulmana, nel palazzo dell’Emiro, alla Kalsa di Palermo, i cuochi di corte si sbizzarrissero ad unire sapori e colori e che dal miscuglio di vari ingredienti propri della cucina saracena uniti alla ricotta, che veniva prodotta in Sicilia già dai tempi della Preistoria, sia venuta fuori la cassata. In principio fu solo un involucro cotto al forno di pasta frolla ripiena di ricotta, zucchero, agrumi e aromi, e questa versione essenziale esiste ancora e si chiama, appunto, Cassata al forno. Dopo gli Arabi arrivarono i Normanni e fecero conoscere la lavorazione della Pasta reale, o pasta di mandorle, e allora questa pasta sostituì, arricchita di altri aromi e coloranti naturali, l’involucro di pasta frolla usato fino ad allora, e la cassata divenne definitivamente una preparazione a freddo.
Gli Spagnoli regalarono alla cucina siciliana cioccolato e pan di Spagna, mentre l’età Barocca inserì nella preparazione della cassata la frutta candita, che a questo punto fu completa e pronta per essere tramandata nella sua ricchezza. Suore dei monasteri e cuochi dei nobili casati sono stati per molti secoli gli unici depositari dei segreti di questo dolce variopinto.
Fu un dolce così importante per la cultura siciliana dei secoli passati, che addirittura esisteva un documento, stilato dal Sinodo dei Vescovi di Mazara, riunito nell’anno 1575, che ne stabiliva la preparazione e il consumo “indispensabile” come rituale necessario nel giorno di Pasqua, tanto che un noto proverbio siciliano cita: tintu è cu nun mancia a cassata a matina ri pasqua.
Si può dire che certamente la cassata è il dolce che più di tutti racchiude in sé il patrimonio gastronomico apportato da dominazioni e da culture diverse da quella italiana che sono passate da quest’isola nel corso dei secoli, qualunque civiltà sia passata in Sicilia ha lasciato tracce di sé in questo dolce meraviglioso e opulento, tipico della pasticceria siciliana.
Ai nostri giorni rimane l’orgoglio delle vetrine dei pasticceri, è la preparazione che, con le sue decorazioni baroccheggianti, più di qualsiasi altra rimanda gli echi dell’opulenza della storia passata.
Oggi ve ne sono moltissime versioni: classica, monoporzione, in bicchiere, destrutturata, ecc. La versione classica presenta almeno due varianti: l’una con il pan di Spagna coperto dal marzapane, l’altra con trapezi di pan di Spagna alternati a trapezi di marzapane nella copertura laterale del recipiente per la preparazione.

martedì 4 settembre 2012

I luoghi iblei dei santi


Si è svolta il 30 agosto, presso la Sala delle Aquile Verdi del comune di Palazzolo Acreide, la conferenza dal titolo “I luoghi iblei dei santi” nel ciclo dei festeggiamenti di Santa Lucia di Mendola.
Ha introdotto i lavori la prof.ssa Maria Rita Cantone, responsabile dell’Associazione “Santa Lucia di Mendola” per la valorizzazione del sito, parlando dell’associazione e della storia del sito archeologico. La zona infatti presenta i più antichi insediamenti umani, risalenti a circa 7000 anni fa, un tempo le contrade Santa Lucia di Mendola e Baulì erano un tutt’uno sotto quest’ultimo toponimo.
Ha poi passato la parola all’avv. Paolo Sandalo, assessore al turismo del comune di Palazzolo Acreide, per i tradizionali saluti, quindi è toccato al naturalista Fabio Morreale, presidente dell’associazione “Natura Sicula” che ha trattato delle figure mistiche che hanno calpestato il territorio ibleo.
Reduce da una precedente escursione nel territorio centro-settentrionale dell’Italia, Fabio ha notato che il territorio ibleo rappresenta un’offerta turistica varia e, in quanto tale, quindi stanca meno rispetto ad altri luoghi.
Vi possiamo rinvenire siti naturalistici (Pantalica, Cava Grande, Saline di Siracusa, Saline di Priolo, Vendicari), siti archeologici (Pantalica, Cava Grande, Vendicari, Siracusa, Solarino, Akrai, ecc.), siti antropologici (tonnare, mulini, concerie, ecc.), siti geologici (aree calcaree, aree ignee, aree laviche, ecc.), percorsi (siti) religiosi (Siracusa, il cammino di San Paolo). Io aggiungerei anche il vasto patrimonio enogastronomico che caratterizza tutta la Sicilia e quest’area in particolare.
L’area iblea si caratterizza per la presenza, vera o presunta, permanente o temporanea, di alcuni santi o personaggi in odore di santità, il percorso culturale è quindi proceduto in ordine cronologico.

È dato storico la presenza dell’Apostolo a Siracusa per una sosta di tre giorni della nave che lo portava fino a Roma, dopo il naufragio di Malta (Atti 28). Un acquarello su carta del pittore Francesco Paolo Priolo del 1867, conservato alla Galleria Bellomo di Siracusa, raffigura San Paolo mentre predica alla grotta dei cordari.
Il suo culto è forte però in due paesini limitrofi, Solarino e Palazzolo Acreide, di cui è anche il patrono. Le loro feste vengono citate dall’etnografo palermitano Giuseppe Pitré e si caratterizzano per la presenza dei serpenti e delle figure di guaritori dai loro morsi chiamati ciàrauli, rifacentisi all’episodio del morso della vipera avvenuto nell’isola di Malta. Solarino vanta una secolare tradizione che vuole San Paolo, durante i 3 giorni di sosta aretusea, spingersi fino ad un oppidum per far visita ad una comunità cristiana, ha sete, percuote la terra e sgorga dell’acqua, poi siccome era tardi cerca rifugio per la notte lì vicino. L’area archeologica, scavata da Paolo Orsi poco fuori in centro abitato, presenta resti di insediamenti risalenti al IV secolo e ad epoche successive intorno ad un pozzo di acqua miracolosa mai secco a memoria d’uomo, ma che ahimè oggi risulta quasi prosciugato dalle varie captazioni civili delle falde.
Poco vicino una enorme grotta ipogea profonda circa 4 metri che la tradizione indica come ricovero del Santo, al suo interno è cresciuto un noce che è il più grande degli iblei, alto 15 metri con una circonferenza (a petto d’uomo) di 4 metri.

Il culto della Vergine siracusana è legato alla vista ed è diffuso in tutto il mondo. Nasce a Siracusa da genitori cristiani che la educano alla loro religione, rifiutata la proposta di matrimonio di un nobile viene denunciata e martirizzata (secondo la tradizione) il 13/12/304 d.C.
Errore comune di turisti e locali è il fatto che il duomo sia dedicato alla Santa poiché ne custodisce il simulacro argenteo, mentre nella realtà risulta dedicato alla natività della Madonna.
Tre sono le chiese a Siracusa dedicate a Lucia:
1ª – in via Cavour dove sorge un’edicola votiva a ricordo della chiesa che ormai non c’è più
2ª – Santa Lucia fuori le mura
3ª – la chiesa della tonnara di Santa Panagia, era dedicata appunto a Santa Lucia
La chiesa della badia ha invece tutta un’altra storia…
In via Cuma, 3, vicino piazza Santa Lucia, all’interno di un condomino si trova il luogo in cui, secondo la tradizione, venne martirizzata Santa Lucia; la colonna originale è stata spostata alla basilica vicina. La struttura accanto racchiude il sepolcro della Vergine, unico fra quelli delle catacombe con bassorilievo. Il culto è antico e databile con la testimonianza dell’iscrizione di Euskia.

Santa Lucia di Mendola
Nell’ultimo secolo la figura di questa martire si è confusa con la coeva vergine aretusea fino a farle assumere i tratti di una giovane. In realtà questa Santa è una vedova romana, avanti negli anni, che insieme a Geminiano fugge nell’odierna omonima localita, dove fa nuovi proseliti. La persecuzione raggiunge anche questi luoghi e il 13/9/298 d.C. 75 cristiani vengono uccisi, Lucia e Geminiano riescono a nascondersi per 3 giorni nell’ipogeo, dalle preghiere della santa scaturisce una fonte; Lucia muore di stenti nell’ipogeo il 16/9/299 mentre Geminiano appena fuori venne catturato e martirizzato. Anche qui abbiamo una fonte di acqua miracolosa ed un sito archeologico al momento chiuso per la messa in sicurezza.

Santa Sofia
Figura alquanto leggendaria, si rifugia nel territorio di Sortino, tra la parte bassa e la chiesa rupestre del crocifisso. Un soldato romano la trova e l’afferra per le trecce, queste però si staccano e lei riesce a fuggire. Il soldato per rabbia scaglia a terra le trecce e lì scaturisce una sorgente di acqua. Qui sorge successivamente la chiesa di Santa Sofia a rassu. Un’altra leggenda la ritiene fatta sgorgare miracolosamente dalla Santa per dissetare i soldati che la portavano al martirio: tagliatasi una treccia e gettatala a terra, diede origine ad una fontana la cui acqua esce stranamente intrecciata.
Fino alla metà del ‘900 vi si svolgeva un rito per la guarigione delle persone gravemente malate: Santa Suffia, sciugghitivi ‘a trizza! (santa Sofia, scioglietevi la treccia!) e se una candela immersa nelle acque non si spegneva, per l’acqua improvvisamente chetatasi, il morituro sarebbe guarito.
Poco distante dalla fonte miracolosa venne costruita la chiesa Santa Suffia Arrassu, ovvero “Santa Sofia di Fuori”, addossata ad una rupe ove si apre una grotta che fu, secondo alcuni prigione, secondo altri luogo di martirio della Santa.
Altra grotta-chiesa legata alla Santa si trova tra Cassaro e Ferla; due chiese le sono dedicate, a Sortino ed a Ferla. La Basilica di San Paolo a Palazzolo, prima del terremoto del 1693 era dedicata a questa Santa, venne concessa dalla confraternita a condizione che fosse mantenuto un altare dedicato alla Santa, altare ancora presente nella navata di destra.

San Corrado
Corrado Confalonieri si trovava a caccia con una compagnia di amici e familiari. Quel giorno la caccia non diede buon esito e Corrado ordinò di appiccare il fuoco alle sterpaglie per stanare la cacciagione ma, complice il forte vento, il fuoco in un attimo bruciò tutto ciò che incontrava, tra cui boschi, case e capanne. Spaventati ed impotenti di fronte a questo evento, Corrado e i suoi scappano verso casa, decisi a non far trapelare la verità. Non appena la notizia si propagò in città, si credette che l’incendio fosse stato appiccato dai Guelfi per colpire l’attuale governanza ghibellina e subito si scatenò la caccia al responsabile, che venne individuato in un povero contadino. La notizia della condanna colpì l’animo di Corrado, che non riusciva a darsi pace per quello che era successo a causa sua. Non esitò quindi ad interrompere il corteo punitivo ed a chiedere udienza al Signore di Piacenza, al quale dichiarò la propria colpevolezza, subendo la pesantissima pena della confisca di tutti i terreni per risarcire il danno fatto (in quanto nobile, evitò le punizioni corporali).
Questo evento segnò profondamente la vita di Corrado, che negli anni successivi si avvicinò sempre più alla fede; in accordo con la moglie Giovannina, decisero entrambi di votarsi alla religione: lui francescano terziario, lei clarissa. Nel progredire nel suo stato religioso prese la decisione di lasciare Piacenza e tutte le cose materiali per dedicarsi alla propria anima ed alle cose eterne.
Nel suo lungo peregrinare, eremita itinerante secondo la tradizione francescana, Corrado attraversò l’Italia verso sud, pregando sulle tombe degli Apostoli a Roma, finché non giunse nella sua meta definitiva, Noto, intorno al 1340. Qui legò una stretta amicizia con Guglielmo Buccheri che le vicende della vita portarono a fare una scelta d’eremitaggio simile a Corrado. Buccheri ospitò Corrado nelle cosiddette Celle, un quartiere isolato nei pressi della Chiesa del Crocifisso, sul monte Alvèria (Noto antica), dove vi rimase per circa due anni, per poi ricominciare le sue peregrinazioni quando il suo eremitaggio fu compromesso dalle sempre più numerose genti che chiedono a lui preghiere e consigli.
decide quindi si spostarsi in quella che verrà poi definita la “valle dei miracoli” erosa dal fiume San Corrado, affluente dell’Asinara. Morì il 18/2/1351, sul posto verrà poi eretta la chiesa di San Corrado Fuori le mura.

San Guglielmo da Scicli
Il Beato Guglielmo nasce a Noto (SR) nel 1309, dalla nobile famiglia Buccheri, da giovanissimo entrò a far parte della corte di Re Federico II col ruolo di paggio, per molti anni occupò il ruolo di uno degli scudieri del monarca. Nel 1337 durante una battuta di caccia nei boschi alle falde dell’Etna un grosso cinghiale stava aggredendo il Sovrano, allorché il giovane paggio Guglielmo si gettò armato sulla bestia, salvando la vita al Re, ma riducendosi in fin di vita per un morso ricevuto dal cinghiale. Trasportato a Catania, un consiglio di medici prontamente convocato dal Re, non può far altro che costatare la gravità della ferita e concludere che allo sfortunato scudiero non restano che poche ore di vita.
Mentre Guglielmo è in agonia in sogno gli appare la Martire Sant’Agata che gli dice queste parole: “Sorgi Guglielmo, Fratello mio, abbandona la corte e va nella solitudine, dove Dio parlerà al tuo cuore”. L’indomani, tra lo stupore generale della corte, Guglielmo si leva dal letto perfettamente guarito. Portatosi al cospetto del suo Sovrano, che lo accoglie con gioia, gli parlò della visione avuta nella notte, e del suo desiderio di darsi alla vita eremitica. Il Re riconoscente verso il suo scudiero tenta di trattenerlo a se, ma vista l’irremovibilità di Guglielmo, lo convince ad accettare almeno un cavallo e una borsa di denaro.
Partito da Catania per rientrare nella natia Noto, giunto in località chiamata “primosole”, incontra un mendicante, con cui scambia gli abiti e gli dona pure il cavallo e la borsa di denaro avuta dal Re.
Rientrato a Noto occupa un eremitorio detto “Le Celle” attiguo alla chiesetta di Santa Maria del Crocefisso, dove si dedica alla preghiera e al servizio dei poveri, tra lo stupore dei suoi concittadini, che lo ricordavano bello e potente al servizio del Re e ora lo vedono umile e dimesso eremita nel saio di terziario Francescano. Nel 1343 accolse nel suo eremitorio delle “celle” un altro terziario Francescano, il piacentino Corrado Confalonieri, oggi Santo anche lui e patrono della città di Noto. Nel 1340 dopo diversi anni di fraterna convivenza, i due anacoreti decidono di separarsi, pare perché continuamente molestati da un nipote di Guglielmo, cotal Pietro Buccheri, che non sopportava che lo zio avesse abbandonato la corte reale e si fosse dato alla vita di misero eremita. Corrado si ritirerà nell’impervia contrada dei “pizzoni” sempre nei dintorni di Noto, dove passerà al cielo il 19 febbraio 1351. Guglielmo, pare per ispirazione della Vergine Maria, si porterà a Scicli, dove vivrà in una misera casupola adiacente alla chiesetta di Santa Maria della Pietà, esistente fuori dell’abitato. La sua lunga vita (vivrà 95 anni) passerà tra il servizio alla suddetta chiesa in qualità di sagrestano, e la questua tra i benestanti del paese, a cui chiedeva cibarie da donare ai poveri. Si racconta che per mettere in atto il consiglio evangelico di fare la carità in modo che la “Sinistra non sappia ciò che fa la tua destra”, egli, quando sapeva un caso di una famiglia bisognosa, lasciasse gli aiuti dietro la porta di notte, bussava e correva a nascondersi in modo che nessuno potesse sapere che era lui a lasciare quei doni.
Passò alla gloria del cielo il 4 aprile 1404, venerdì Santo, allorché per salutare la sua anima benedetta, nonostante il divieto imposto dalla liturgia del venerdì Santo, le campane delle chiese di Scicli suonarono da sole a festa. La popolazione di Scicli lo invoca nel mese di aprile, allorché a causa della siccità ingialliscono i campi, per ottenere la pioggia. Nel passato veniva invocato per ottenere la guarigione dall’ernia e ancor più per guarire dal morbo durante le pestilenze.

San Pietro di Buscemi
Nella cava di San Giorgio si trova una chiesetta bizantina di Santo Pietro, trasformata nel tempo in ovile con un poderoso muro di cinta munito di para lupi. Dopo un primo rilievo di Orsi, che vi rinvenì una scritta in cui riuscì a leggere il nome Pietro, figura religiosa (ascetica) locale lì sepolto, venne dal Venditti ricondotta ad una tipologia più usuale a pianta basilicale a tre navate, l’interno della grotta sembra riproporsi come una sorta di unicum ascrivibile, però, alle chiese rupestri di ambiente siriaco-palestinese caratterizzate da uno spazio absidato e orientato preceduto da una sorta di nartece. l’abside è elevata su due gradini ed originariamente era isolata da una iconostasi lignea (di cui rimangono tracce a livello pavimentale), ed accoglie al centro un altare cubico mentre, contro la parete orientale, si pone una cattedra, ricavata nella roccia, con braccioli, schienale e suppedaneo. In due ambienti periferici si riconoscono due ipogei sepolcrali, mentre altre tombe terragne si aprono nel pavimento della chiesa e due tombe ad arcosolio si aprono lungo la parete occidentale del riconosciuto nartece.
La presenza dell’elemento greco è, invece, attestata da altre incisioni di tipo devozionale, poste presso l’ingresso della grotta, e da una interessante crocetta greca incisa presso l’epigrafe latina; queste testimonianze medioevali per lungo tempo sono rimaste coperte da vari strati di intonaco, sui quali vi sono tracce molto guaste di affresco. Al giorno d’oggi è riconoscibile solo il volto della Vergine di una Annunciazione, collocata a destra dell’ingresso, inquadrato dalla didascalia MAT(ER) D(OMI)NI, mentre in una camera scavata sulla destra è riconoscibile la figura di San Marco.

Fra Giuseppe (Santoro)
Chiude la parata di santi Giuseppe Santoro da Buscemi (1891-1975); l’unica foto è stata presa dalla lapide (è sepolto al cimitero di Buscemi), non si faceva fotografare da nessuno.
Non è un santo, ma una figura ascetica particolare, dal pessimo carattere e maleodorante, si allontanò da Buscemi per pregare, scolpiva le grotte e le dipingeva con immagini religiose spesso raffiguranti la Madonna a lui tanto cara.

Al termine è stato proiettato il filmato fatto dal giornalista Salvo Fruciano l’anno scorso sulla caduta del romitorio di Mendola, che parla anche dei templi ferali e dei Santoni a Palazzolo.